lunedì 25 marzo 2013

A piedi nudi tra la sabbia e la plastica

Tre e mezza.
Giornata lenta e sonnacchiosa, cominciata con un mega temporale che mi ha svegliato ancora prima del solito, cioè molto prima dell'alba.
Quando piove qui, non scherza mica! Non fa due goccioline d'acqua, ma una vera e propria cascata, una secchiata, una doccia! Il tempo di fare colazione e già il sentiero che porta al jetty si era trasformato in un fiume. Incappucciata nel k-way ho scarpinato con l'acqua che mi arrivava alle caviglie fino al pontile, solo per scoprire che metà delle uscite della giornata erano state cancellate.
Non a causa del maltempo, ma per molteplici guasti ai motori di due barche. (Come dire.. una giornata rosea sotto tutti i punti di vista!)
E così, dopo un tuffetto di fronte al pontile con un paio di subacquei, mi sono ritrovata disoccupata. Anche adesso, che è pomeriggio inoltrato, sono seduta sul pavimento di legno della mia stanza, ricoperto di sabbia come una torta della mia mamma lo è di zucchero a velo. Io ci provo a tenerla a bada, la sabbia, ma per ottenere un risultato minimo dovrei spazzare due volte al giorno, e possibilmente camminare a mezzo metro da terra. Per evitare che i miei piedi insabbiati trascinino ovunque gli odiati granelli.
Le scarpe, infatti, sono un lontano ricordo.
Le nike per andare a correre, i sandali per la sera, le scarpe di corda con la zeppa per le occasioni speciali, le converse da viaggio... Tutte sepolte da settimane in una tasca dello zaino di Marco! Qui si gira ad infradito, o meglio ancora a piedi nudi. Anzi, io sono una delle poche che si ostina a portarsi dietro le Hawaianas, e lo faccio solo per motivi logici (tipo evitare di saltellare sulle assi roventi del pontile, o di farsi pizzicare da un granchio nascosto nella sabbia di sera, o evitare di avviare una coltivazione di funghi e verruche camminando a piedi nudi nei bagni in comune!).
Nel ristorante però si può entrare solamente a piedi scalzi. All'ingresso c'è una simpatica pozza d'acqua, limpida e gelata al mattino, torbida e bollente di sera, in cui obbligatoriamente ci si sciacqua le generose fette prima di salire le scale della reception. Come se questo servisse davvero a tenere lontani gli infami granelli di sabbia... (Però mi piace questa abitudine! Mi ricorda la Thailandia, dove tenere le scarpe in un luogo chiuso è simbolo di maleducazione, e sulla porta di ogni casa una scritta a colori vivaci invita gentilmente a toglierle!)
Le scarpe, o quanto meno le infradito, sono però d'obbligo nelle nostre peregrinazioni per l'isola. Attenzione, per raggiungere la sponda opposta di questo mondo perduto bastano due minuti netti! Per farlo però bisogna attraversare l'accampamento degli Zingari del Mare, il villaggio dei Locali, e la zona selvatica dell'isola, dove le piante tropicali avvolgono un misero sentiero tappezzato dai colori dei rifiuti.
Quella della spazzatura, e in particolare della plastica, è una triste realtà a Mabul. C'è chi dice che gli abitanti dell'isola, abituati per decenni a vivere di prodotti naturali e a gettare i propri rifiuti dove capitava, non riescono ora a concepire la potenzialità inquinante e dannosa dei prodotti portati dagli "occidentali". Così, come prima mangiavano su foglie di banana lasciate poi a decomporsi in mare, ora mangiano patatine e dolciumi in scatola, usano piatti di ceramica e bicchieri di plastica, e ugualmente gettano tutti i loro rifiuti in acqua. Questo non solo crea disagio a turisti e subacquei, non solo crea un pericolo concreto per le tartarughe marine che mangiano i sacchetti di plastica scambiandoli per meduse, ma crea soprattutto un circolo vizioso: noi puliamo la spiaggia, i locali (forse credendo alla fatina della pulizia) continuano a gettare in mare, le onde riportano tutto diligentemente a riva, e nel giro di due giorni ricomincia tutto daccapo. È una storia senza fine che non si interromperà finché non si riuscirà a cambiare la mentalità e le convinzioni delle persone che su quest'isola ci vivono, senza rendersi conto di ucciderla lentamente.




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