domenica 2 marzo 2014

Sachsenhausen


All'inizio sembra di essere sul set cinematografico di un film trito e ritrito. 
Ti aspetti quasi che Benigni sbuchi da dietro una delle baracche, o che un bambino col pigiama a strisce ti offra una merendina. Tutto sembra noto, familiare, rassicurante quasi, come tornare a Gardaland dopo tanti anni e ricordarsi ancora dove si trova la giostra delle tazze che girano.
Sarà complice di questa sensazione anche l'ordinaria, linda periferia di campagna che circonda il campo. Talmente pulita e perfetta da sembrare finta anche lei. Le villette col tetto spiovente, le tendine color pastello, i cani che sonnecchiano nei giardini. Una signora anziana cura amorevolmente un orticello, un pensionato spacca la legna per il cammino.
Tu sei lí che passeggi sereno, aspirando il profumo che esce dalle panetterie e beandoti del verde che fiancheggia la via, senza sapere che uno dei più grandi campi di concentramento della Germania sorge ancora lì, a pochi passi di distanza. Giusto dietro quel muro grigio e compatto, che interrompe bruscamente la strada, e che porta il nome infernale: Sachenhausen.


Il muro stesso è una ricostruzione, una simulazione di quello che sessant'anni fa intrappolava i prigionieri dei nazisti. Oggi si apre sulla biglietteria ed accoglie i visitatori. 
Non ci si rende conto di quanto sia drammaticamente reale ciò che ci circonda. Orde di turisti, scolaresche, gruppi guidati affollano il cortile. Macchine fotografiche, iphone e audioguide animano la folla, forniscono informazioni dettagliate, scattano foto ricordo di ragazzi in posa davanti al filo spinato.
Persino il famigerato cancello (questo no, non è una ricostruzione, ma quello reale del 1936) con la celebre scritta "Arbeit macht frei", il lavoro rende liberi, potrebbe sembrare solo l'ingresso del set cinematografico. Un set che non ti aspetti cosí grande, con quel vasto prato triangolare, delimitato dal solito muro, e punteggiato dalle torrette di avvistamento.

La consapevolezza arriva gradualmente, tramite i dettagli, il ferro arrugginito, i cartelli di morte, il fumo che esce da un comignolo. Ti aiutano le informazioni della audioguida, talmente precisa nei resoconti storici che dopo un po' ti ci perdi, tra tutte quelle date, quei nomi e quegli orrori.
La consapevolezza arriva quando fai due più due, e ti rendi conto che sul sentiero dove tu oggi passeggi tranquilla la gente ci soffriva e ci moriva. Ma non come dentro un film. Per davvero.
E se tu oggi rabbrividisci di freddo nel cappotto e nella sciarpa, ti chiedi come facessero a resistere i prigionieri nelle divise di tessuto leggero e lacero. Come dormissero in quelle brandine a misura di bambino. Che aspetto avessere quando penzolavano impiccati dal patibolo pubblico.

E gradualmente questa nuova consapevolezza non solo rimpiazza il senso di finzione iniziale, ma ti entra dentro a tal punto che dopo qualche ora, dopo centinaia di passi lungo il perimetro, e migliaia di parole e di racconti raccapriccianti, è come se tutto assumesse un senso.
Come se non ci fosse più niente di strano nell'atmosfera inquietante che impregna questo parco giochi della morte, questo campo ideato, progettato e costruito per infliggere sofferenze. Persino le camere a gas, i forni crematori, la piazza delle fucilazioni si inquadrano perfettamente in questo disegno di studiata efficienza di morte. E forse, ma solo forse, cominci allora ad intuire, molto alla lontana, la disperazione e la mancanza di speranza di coloro che qui si sono consumati. Niente biglietto di ingresso per loro, né souvenir all'uscita.

Nessun commento:

Posta un commento